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  • Immagine del redattoreSebastiano Michelotti

Il ruolo della scienza e della politica al tempo del Coronavirus


Il Sars-CoV-2 è un grande sconosciuto, una immensa incognita che pesa sul nostro futuro e di cui sappiamo poco, molto poco. Ad oggi sono, infatti, più i punti interrogativi che le risposte certe che la scienza è in grado di dare su questo virus. Ma la velocità e la violenza con cui questo nuovo ospite si è inserito nelle nostre vite ha costretto la società ad attivare i suoi anticorpi migliori, o almeno a provarci. L’obbiettivo impellente era quello di reagire, trovare il modo per far fronte a questa emergenza. Oggi però, tre mesi dopo l’inizio di questo nuovo capitolo, vale la pena valutare la validità della nostra risposta dal punto di vista socio-politico, cercando di trarre degli insegnamenti per il futuro.


Quello a cui abbiamo assistito tutti, senza ombra di dubbio, è lo stravolgimento del ruolo che la scienza ha avuto nella società. Io credo fermamente nei valori della scienza, ma in questi ultimi mesi la sua essenza è stata distorta, fino a violare alcuni principi fondanti. Questo rappresenta una terribile perdita per tutta l'umanità.

Sfatiamo un mito: la scienza non detiene nessuna verità innata, imprescindibile e assoluta. Tanto meno in momenti come questi.

La scienza si occupa di esprimere delle ipotesi e formulare dei modelli che possano il più possibile avvicinarsi alla realtà. La ricerca scientifica è un processo continuo di negazioni tramite le quali è possibile superare un precedente risultato con un modello più completo e corretto. La storia del progresso scientifico è piena di esempi di modelli, teorie o leggi superate grazie alla loro negazione, come il geocentrismo che Galileo scavalcò con le sue scoperte o le teorie newtoniane che Einstein perfezionò con la relatività generale.


È quindi fondamentale che ogni affermazione della scienza abbia la possibilità di essere messa a riprova perché possa essere validata, contestata o migliorata secondo il metodo scientifico. Altrimenti a rimetterci è proprio il suo valore razionale, la sua possibilità di suggerire la soluzione migliore per il bene di tutti.


Gli scienziati, per principio, non sanno. I fisici, esperti della materia, ammettono tranquillamente di non sapere di cosa sia fatto il 95% dell’universo. I biotecnologi, esperti di DNA, non sanno a cosa serva più della metà del nostro genoma, o addirittura se serve. E i virologi, ora così sulla cresta dell’onda alla stregua di rock star, sono messi ancora peggio, perché non sanno nemmeno la percentuale di quello che non conoscono: hanno censito migliaia di virus, ma sul pianeta potrebbero essercene addirittura miliardi.


Non solo è enorme ciò che non sappiamo, ma è enorme ciò che non sappiamo di non sapere. Ed è proprio questa infinita quantità di cose sconosciute che alimenta nel principio la scienza, che le attribuisce un senso di esistere.

L’ignoto è il noumeno della scienza.

Da quando la pandemia ci ha investito, l’umanità intera vive in un limbo della conoscenza, dove gli indizi non sono prove, dove le cure sono “promettenti” ma non sufficientemente sperimentate, dove gli articoli sul Covid-19 sono pubblicati senza però aver affrontato il processo di peer-review alla base del metodo scientifico stesso. Nonostante ciò vediamo la scienza erigersi a dittatrice di una verità incondizionata che la comunità scientifica diffonde come dogmi, permettendo di decidere chi può far parte della comunità scientifica stessa e chi no.


Spesso scienziati molto importanti vengono screditati ed esclusi (alcuni addirittura denunciati) da essa perché le loro opinioni, i loro modelli o le loro ricerche non corrispondono al pensiero maggioritario o portano a conclusioni troppo scomode. Attenzione, non vuol dire che si debbano accettare anche le falsità o i modelli privi di reale fondamento scientifico. Ma come diceva il filosofo positivista John Stuart Mill, non si può valutare un'idea come falsa a prescindere, o screditarla perché magari politicamente troppo scomoda.


Una scienza che non accetta delle critiche fondate non è scienza, è religione. Le sue leggi diventano così dogmi, le sue valutazioni dei pregiudizi e la comunità scientifica assume il ruolo della nuova chiesa, con tanto di Task Force inquisitrici al seguito (come quella sulle fake news). Proprio come successe per Galileo Galilei, che fu costretto ad abiurare dalla comunità scientifica del tempo perché le sue idee risultavano troppo scomode, benché vere. La scienza, in quanto tale, non può negare l'espressione delle "opinioni" dei suoi componenti dal momento che sono indispensabili per la conquista della verità. Le opinioni sbagliate, come diceva Mill, messe a confronto cederanno pian piano il passo a quelle più vere. Ma soprattutto quando le conclusioni scientifiche portano a risvolti politici così importanti, come di questi tempi, non possono mancare della possibilità di essere messi in discussione, di dar voce a un dibattito e a delle contestazioni.


La scienza, nella sua essenza più pura, non avrebbe questo atteggiamento arrogante di imporsi sulla società che vediamo oggi. La vera scienza si occupa, come ho precedentemente detto, di formulare dei modelli per cercare di raggiungere la verità e non ha interessi nel guidare il gregge come se fosse un pastore. Ne ha bisogno invece la politica, e il mezzo perfetto è l’informazione. È infatti quando la scienza entra e si mischia con la comunicazione, quando gli scienziati smettono di difendere inflessibilmente il confine tra sapere e non-sapere e si lasciano infettare dal bisogno mediatico di “dare sicurezze”, che essa perde il suo valore.


Si è parlato molto della necessità da parte dei giornalisti di entrare meglio e più profondamente nel metodo scientifico, di imparare a comunicarlo con maggior correttezza e minore superficialità. Certamente è un aspetto, ma forse marginale, perché questo punto di vista assume una posizione su cui è lecito avere dubbi, e cioè che il giornalismo sia principalmente interessato a informare. Non è da escludere che se lo è, lo sia marginalmente. Troppo poco si parla di quanto sia necessario invece un ripensamento profondo del ruolo pubblico e politico dello scienziato.


Questo ripensamento sarebbe il caso passasse anche dall'introduzione nella sua formazione di rudimenti di discipline umanistiche. In questi mesi abbiamo assistito con un certo sgomento a discorsi di straordinaria chiarezza sul comportamento del virus da parte di virologi o immunologi. Discorsi che però slittavano e sfociavano in suggerimenti sulla sanità pubblica e sulle relative decisioni politiche per niente connessi: «Il virus si comporta così, però gli italiani sappiamo come sono quindi meglio prevenire e chiudere tutto». Non c’è nessun nesso tra le due affermazioni. È come se un sociologo dicesse «sappiamo che il gruppo sociale X ha questi comportamenti quindi il virus non è un problema». Se il secondo caso è palesemente improbabile è solo perché le scienze sociali non hanno la stessa aura di autorevolezza di quelle “dure”.

Accettiamo che un virologo parli di società, ma difficilmente accettiamo che un sociologo parli di virologia.

Il problema non è certo che il virologo o l’epidemiologo parlino di società, tutti devono farlo. Il problema è quando se ne parla senza averne nessuna competenza e l’umiltà per ammetterlo. In questo momento vediamo scienziati “duri” occuparsi di continuo di materie della scienza umanistica, come la sociologia, per determinare dal punto di vista politico quale sia la scelta migliore senza però ammettere di non avere nel merito le conoscenze adeguate per poterlo fare, o addirittura pensando di poterle maneggiare con disinvoltura. Questo è inammissibile e oltremodo dannoso, in quanto conduce la società in un percorso molto probabilmente non corretto.


La politica invece, al tempo del Coronavirus, non ha presentato grosse sorprese o novità mettendo in luce le becere malattie di cui era affetta già da molti anni. A fronte di un problema sanitario pare che ogni bandiera abbia colto l'occasione per tirare acqua al suo mulino, e sia mancato un vero senso di comunità che unisse le divergenze di ideali e individuasse, con contezza, una strategia unica e decisa.


Qui in Italia, per esempio, abbiamo visto manifestarsi quelle dinamiche che in un sistema - sociale, politico ed economico - rimangono nascoste nei momenti di apparente normalità ma che sono invece sintomo di una crisi identitaria della politica molto più profonda. Anni e anni di politiche liberiste fatte di privatizzazioni, tagli di bilancio, depotenziamenti hanno portato a una distruzione virale del nostro sistema sanitario nazionale. Dal 2010 al 2018 l’Italia ha tagliato fondi alla sanità per 37 miliardi di euro favorendo ampiamente il settore privato. Infatti non c’è bisogno di una riforma che americanizzi d’un colpo la sanità per fare sì che questa diventi un business per privati.


Basta fare in modo che gli ospedali decadano, chiudano, che non abbiano fondi sufficienti, che i tempi di attesa per una prestazione siano inconciliabili con i bisogni di tutela della salute e di cura. Apparirà, poi, giustificato drenare soldi pubblici ai privati, lasciare che questi allarghino i loro tentacoli su ogni tipo di prestazione. Solo che quando scoppia un’emergenza sanitaria come questa si scopre tutto d’un tratto che mancano posti letto nelle terapie intensive, manca il personale sanitario e i nostri ospedali non sono minimamente preparati a gestire la mole di persone che necessitano cure urgenti. Questo è il più grande fallimento che ci si potesse aspettare dalla politica.


 
 

Come se non bastasse, fin dal primo giorno di lock-down si è diffusa sempre di più l’idea per cui la responsabilità dell’andamento delle curve dei contagi dipendesse dalle passeggiate del vicino con il cane, o dalla corsa di troppo del runner di turno. Nel frattempo però i dati ISTAT ci dicono che il 55,7% dei lavoratori italiani (si parla di 11 milioni di persone) continuava a recarsi in ufficio, in fabbrica o negli ospedali ed a lavorare senza le dovute misure di protezione. Nessun controllo, spesso mancavano le mascherine e non era possibile evitare di entrare a stretto contatto con i colleghi, o peggio, con pazienti infetti.

L’idea che l’Italia fosse completamente chiusa, e che quindi chi osasse camminare per strada fosse un assassino, era solo apparente.

Ma è stata senza ombra di dubbio alimentata consapevolmente da continue dichiarazioni, interviste, articoli e slogan. Se l’epidemia si è diffusa più del dovuto è a causa della mancanza di un reale piano di prevenzione e riorganizzazione della sicurezza sul lavoro per colpa di una discutibile gestione politica. Giocarsi la carta dell’indisciplina degli italiani come giustificazione dei fallimenti politici è quanto di più abietto e infantile ci si possa aspettare da una classe dirigente evidentemente non all'altezza. Dal canto loro i cittadini si sono comportati in modo encomiabile: sempre i dati ufficiali del governo riportano che di tutti controlli effettuati in questi mesi solo l’1,14% sono sfociati in sanzioni a persone che uscivano senza un valido motivo.


Nel frattempo, tra le case di riposo della Lombardia, si consumava un tacito genocidio di anziani indifesi, rinchiusi per legge insieme a pazienti covid in strutture totalmente inadeguate e non preparate.


 
 

A questo punto chiedersi quale sia stato il ruolo della politica in questo periodo di pandemia suona quasi come una domanda inutile. Messa a duro confronto con la sua incapacità di reagire e con l’impossibilità di giustificare la sua inefficienza la politica ha travestito la scienza del ruolo di guida indiscutibile, cedendole il posto nonostante la mancanza completa di certezze metodologiche.


Così la scienza - o meglio un nuovo, singolare, ibrido tra essa, la politica e la comunicazione mediatica - forte del suo apparentemente giustificato potere impositorio, ha preso delle enormi, frettolose, decisioni, facendo il più delle volte dei tentativi e combinando anche molti guai. Solo che non c’è stata l’umiltà di ammetterlo e all'esterno quei tentativi sono passati come le uniche possibili soluzioni sicure e scientificamente certa.


Viene invece da chiedersi quale sarebbe dovuto essere il ruolo della politica, e quale dovrebbe essere nella fase di ripartenza. Innanzi tutto si sarebbe dovuto mantenere rigorosamente distinto il ruolo politico da quello della scienza. Per fare un esempio, dal momento che la prima causa di morte sono gli incidenti stradali la scienza direbbe: «nessuno deve più andare in macchina», è puro rigore scientifico. La politica invece deve avere il compito di intermediare le valutazioni che la scienza sviluppa applicandole al contesto sociale, rendendo le strade più sicure, aumentando i controlli e via dicendo.


Ma la funzione più di vitale importanza che dovrebbe svolgere la politica in questa cosiddetta fase 3 è quella di tutelare le persone e il loro futuro dalle violente mani del mercato speculatore, che proprio tramite crisi di questo tipo nutre le sue brame. In gioco non ci sono solo le vite delle generazioni presenti, ma anche, e soprattutto, di quelle future, compresa l’integrità del labile equilibro che ci permette di vivere su questo Pianeta.


Al netto di qualsiasi interesse economico, oltre qualsiasi opportunità di speculazione finanziaria la politica ha il dovere imprescindibile di difendere se stessa, la scienza e i suoi cittadini dalla violenza e dalla corruttibilità del denaro. Perché oltre a questa momentanea crisi sanitaria ci aspetta una ben più temibile crisi, quella climatica ed ambientale, dove non sarà più possibile riuscire a conteggiare i morti nel TG delle 18.00, dove il futuro delle persone non dipenderà più da una cura, un vaccino o il numero di posti all'ospedale.


La politica deve avere l’onestà di riconoscere che in questo esatto momento si stanno concependo delle manovre le cui conseguenze si rifletteranno in modo definitivo nel nostro futuro prossimo per affrontare la crisi climatica. Si deve dimostrare prontezza nel preparare consistenti piani di rinascita in direzione di una vera e completa transizione ecologica.


Vanno stretti accordi, imposti vincoli ma allo stesso tempo elargiti finanziamenti e promosso incentivi. Si tratta di riuscire a cambiare l’intero insieme di dinamiche che formano quello che noi chiamiamo “sistema”. Dal settore industriale, a quello energetico, dai trasporti alla produzione al commercio. La politica deve saper guidare questa transizione interpretando al meglio le valutazioni scientifiche, basandosi su di esse, ma senza stravolgerne il principio.


Non possiamo accettare di credere che alla lunga la “poderosa” mano del mercato, che consideriamo alla stregua di una divinità, riesca a risolvere tutto e a garantire un futuro giusto alle prossime generazioni; perché in questo modo, come dice Maynard Keynes, uno degli economisti più importanti della storia:

«alla lunga saremo tutti morti».

 
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