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  • Immagine del redattoreSebastiano Michelotti

Dove trovare i soldi per la transizione ecologica? Sicuramente non nelle bollette

È necessario cambiare il rapporto tra le istituzioni pubbliche e quelle private. Gli enti regolatori devono indirizzare i flussi finanziari e gli Stati devono applicare il principio di “chi inquina paga”.


In questi giorni sentiamo parlare di aumento delle bollette dell’energia come effetto della transizione ecologica, i cui costi vengono scaricati dal mercato sul consumatore. Ci viene presentato come un fatto ovvio, naturale e che quindi, implicitamente, mette un freno a tutta questa foga di smettere di bruciare combustibili fossili. È in realtà un assunto tutt’altro che oggettivo, ma è facile capire perché attecchisca molto ed è quindi necessario decostruire il problema.


La dichiarazione del Ministro Cingolani, secondo cui «succede perché aumenta anche il prezzo della CO2 prodotta», viene smentita dal Vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans, che afferma «Solo un quinto dell'attuale aumento dei prezzi può essere attribuito alla crescita del prezzo della CO2, il resto dipende dalle carenze del mercato».


Analizzando a fondo la questione possiamo in realtà vedere come questo rincaro abbia a vedere con il mercato dei combustibili fossili stesso, più che con la transizione. L'enorme domanda di energia post pandemia ha fatto alzare la richiesta di gas che arriva dalla Russia. La multinazionale del gas Gazprom avrebbe potuto mantenere i prezzi stabili prenotando una capacità aggiuntiva di transito di gas attraverso l’Ucraina in direzione delle destinazioni europee. Invece non si è mosso nulla, e i prezzi sono schizzati. Il motivo è profondamente legato ai combustibili fossili:

Il Cremlino considera i prezzi record del gas come un’opportunità per aiutare la Gazprom nel fare pressione sui suoi partner occidentali per accelerare l’approvazione del controverso gasdotto Nord stream 2.

In sostanza è una strategia per aprire un nuovo gasdotto ed aumentare i volumi di combustibili fossili. Non entro nel merito della questione del "è sempre colpa dei russi" o no, questo è solo un esempio per capire come il mercato legato ai combustibili fossili faccia esattamente il contrario di quello che dovremmo fare.


Ovviamente la lotta al cambiamento climatico non sarà a costo zero. Nonostante gli innumerevoli vantaggi esistono dei costi considerevoli soprattutto sul lato della mitigation dei danni. Anche nel migliore degli scenari ci troveremo ad affrontare enormi spese a causa dell’inasprimento delle condizioni (si pensi ai danni dei crescenti fenomeni meteorologici estremi). La questione porta alla luce un tema fondamentale: dove trovare i soldi? Uno dei rischi maggiori è che il mercato li cerchi “nelle bollette dei cittadini” che, oltre ad essere moralmente ingiusto, è il modo corretto per far fallire qualsiasi transizione.


Occorre individuare i punti cardine del sistema di rapporti tra pubblico e privato e capire che cosa sia necessario modificare per prepararsi a questa sfida. Attualmente la politica è ancora incastrata nelle logiche di austerity e quindi alle spese emergenziali risponde con ingenti tagli alla spesa pubblica, rendendo le comunità ancora più esposte ai futuri disastri.


Vi sono alcune soluzioni di natura economico-finanziaria che rappresentano l’avanguardia della ricerca economica attuale.

La prima proviene dal «The Climate Transparency Report 2020» e si focalizza sul ruolo delle banche centrali nell'azione contro la crisi climatica. Quale rapporto rapporto deve esserci tra le banche per così dire pubbliche e quelle private? Gli istituti finanziari (privati) sono obbligati a tenere abbastanza riserve monetarie da coprire la domanda a breve termine di liquidità e le eventuali perdite degli investimenti. Di quanto debba essere questa riserva è definito dai rischi che corrono.


Le banche centrali possono incorporare la crisi climatica nei fattori di rischio aggiungendo un «green-supporting-factor» o un «dirty-penalising-factor». In pratica, agli istituti finanziari sarebbe richiesto di mantenere più riserve se esposti a rischi climate-related e ciò costituirebbe un incentivo a spostarsi su prestiti ed investimenti a emissioni zero.

Questo è un esempio di come il settore pubblico dovrebbe strutturare la propria azione verso quello privato. Ma, nonostante le buone potenzialità, tale soluzione presenta alcuni problemi. Il processo potrebbe essere troppo lento e non vi sono reali sicurezze sull’impatto complessivo. La fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi è forse ancora troppo alta.


Vi sono però promettenti teorie economiche che mostrano grande capacità di superare i limiti del capitalismo neoclassico, appoggiandosi su fondamenta keynesiane. La Modern Money Theory è una corrente che sta sviluppando un pensiero apertamente critico sui meccanismi di austerity e sui vincoli di bilancio.


Il debito può essere usato come volano per la transizione, ma per farlo c’è bisogno di riformare i meccanismi e le istituzioni che gestiscono i sistemi di partenariato pubblico-privato (PPP) e gli investimenti. Lo Stato deve recuperare il controllo degli enti regolatori in modo da permettere ai flussi finanziari di percorrere strade con le giuste prospettive di transizione, come evidenziato sulla rivista Phenomenal World.

Il settore privato non è adatto a farsi carico della maggior parte dei costi in modo autonomo: se infrastrutture e servizi devono essere accessibili a tutti, i margini di profitto in grado di attrarre gli operatori privati verrebbero meno. D’altro canto è un dato che i livelli di spesa pubblica, considerati sul lungo periodo, siano tendenzialmente in calo.

Se i governi non hanno soldi e non vogliono abbandonare le logiche liberiste stampando quindi la moneta necessaria - come, però, hanno sempre fatto per salvare le banche nei periodi di crisi - il poco tempo a disposizione ci conduce al vecchio principio del «chi inquina, paga».



Non è un concetto nuovo: come le compagnie del tabacco sono state obbligate a pagare 368 miliardi di dollari di danni alla salute dei cittadini, la British Petroleum ha pagato la maggior parte di costi di bonifica della fuoriuscita di petrolio dalla sua piattaforma nel Golfo del Messico. Allo stesso modo è giusto che l’industria petrolifera si faccia carico dei danni della sua attività di estrazione, ma non solo. Vediamo alcune delle strategie, suggerite anche da Naomi Klein nel suo libro “Una rivoluzione ci salverà”:

  • Eliminare a livello globale i sussidi ai combustibili fossili farebbe risparmiare 775 miliardi di dollari l’anno (Natural Resources Defense Council).

  • Una carbon tax di 50 dollari per ogni tonnellata di CO2 emessa nei paesi sviluppati porterebbe un gettito di 450 miliardi di dollari l’anno (Banca Mondiale, FMI, OCSE - p.15) spendibili compensando i consumatori poveri e del ceto medio per l’aumento dei prezzi.

Estendendo il concetto alla finanza ed alle risorse delle fasce più alte:

  • Una «tassa sui miliardari» dell’1% porterebbe alla raccolta di 46 miliardi di dollari l’anno (Nazioni Unite - p. 44)

  • Portando alla luce i soldi nascosti illegalmente nei paradisi fiscali (tra i 21 e i 32 trilioni di dollari, secondo la Rete per la Giustizia Fiscale) e tassandoli al 30% si avrebbero almeno 190 miliardi di entrate fiscali ogni anno.

  • Tassando con una aliquota ridotta le transazioni finanziarie si potrebbero accumulare quasi 650 miliardi di dollari (Parlamento Europeo).

Se queste misure, che sono solo alcuni esempi, venissero attuate tutte si ricaverebbe in totale più di due trilioni di dollari all’anno. Nessun rincaro delle bollette dovrà pesare sulle spalle dei cittadini più in difficoltà.

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