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  • Immagine del redattoreSebastiano Michelotti

Somalia: tra povertà e guerra per le risorse

Aggiornamento: 21 mag 2020



Giorni e giorni di prime pagine, articoli su articoli, talk show su talk show. Il caso di Silvia Romano sta spopolando in tutti i sensi. La storia della sua esperienza vissuta in Somalia ha scatenato un misto di odio e di compassione. Chi si lamenta per i soldi spesi per la cauzione (ma poi vota un partito che ha rubato e mai restituito 49 milioni di euro) e chi si limita a spendere qualche parola di gioia o in sua difesa. Ma nessuno, nessuno è andato oltre. Nessuno ha provato a chiedersi quale sia il problema alla radice di questa storia. Quale sia il contesto in cui è stata rapita o perché esiste un contesto del genere nel 2020. Come sempre l'informazione, o la maggior parte di essa, non vuole andare oltre il "politically correct". Perché alle persone non piace, non piace sentirsi raccontare verità scomode, la notizia non venderebbe, troppi pochi share. Meglio rimanere in superficie.

Povertà. Disoccupazione. Un’economia che dipende dalle rimesse dei migranti e dalle decisioni dei mercati occidentali. Un Paese distrutto dalla guerra. Un Paese martoriato dalla fame: questa è la Somalia. Più di vent'anni di conflitti per le risorse hanno lasciato questa terra in ginocchio: un milione di somali non ha più una casa, poco meno di un milione si è rifugiato nei Paesi vicini. Tra questi, molti sono bambini. In Somalia solo il 42% dei bambini frequenta la scuola. Di questi, solo il 36% sono bambine. Non avere un’istruzione adeguata significa essere condannati alla fame e alla povertà. Si stima che la popolazione della Somalia sia di 12 milioni di persone. Il 73% dell’intera popolazione vive in condizione di povertà estrema, con meno di due dollari al giorno. L'aspettativa di vita è di 51 anni.

 
 

Ma perché? Perché un paese potenzialmente ricchissimo, con enormi quantità di risorse e di forza lavoro giace in questa situazione così disperata? Come sempre la storia ci aiuta a capire e decifrare il nostro presente.


La politica estera degli USA in Somalia


Nel dicembre del 1992, poco prima di lasciare la Casa Bianca, Bush senior intervenne militarmente in Somalia, ebbe inizio la guerra. In apparenza l’operazione Restore Hope era stata progettata per aiutare la popolazione somala sull'orlo della carestia risultata dal collasso del Governo precedente di Mohamed Siad Barre all’inizio del 1991.


Nella realtà, l’impiego di 12.000 Marines faceva parte del desiderio di riaffermare il valore militare degli Stati Uniti dopo le colossali sconfitte nel sud-est asiatico a metà anni Settanta, in Libano nel 1983-84 e nell'Africa meridionale alla fine degli anni Ottanta, che avevano costretto il maggior Stato imperialista del mondo a ritirarsi dopo perdite umilianti.


Il successore di Bush, il presidente Bill Clinton, ereditò l’invasione in Somalia dove, dopo pochi mesi dal suo insediamento, tra il 1993 e il 1994, la ribellione di un’enorme fetta del Paese contro l’occupazione degli Stati Uniti e dell’ONU portò alla morte di migliaia di somali e alla perdita di centinaia di soldati americani e dei cosiddetti operatori di pace. Gli USA e l’ONU furono costretti ad abbandonare la Somalia nel 1994.


Questo non è piaciuto a Washington che dopo dodici anni ha cominciato a bombardare la Somalia sotto la guida dell’allora presidente George W. Bush. Nel 2007 gli USA hanno reso possibile un’altra invasione, questa volta usando le forze dei vicini etiopi prima e kenioti poi. È stato creato l’AMISOM (Missione dell’Unione Africana in Somalia), un insieme di truppe provenienti da diversi Stati addestrate, armate e usate come meccanismo per implementare la politica estera americana in Somalia e in tutto il Corno d’Africa.


In tutto questo sono morti decine di migliaia di civili, donne, bambini. Le bombe americane, anche se teoricamente sono solo per i terroristi, non risparmiano nessuno.


Gli interessi economici dell’imperialismo in Somalia


E tutto questo perché? Perché la Somalia è al centro di enormi interessi petroliferi per cui gli USA non sono disposti a rinunciare. A partire dai primissimi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la Somalia è stata al centro della ricerca del petrolio e delle risorse naturali. Questo, unito alla posizione strategica sull'Oceano Indiano e vicino al Golfo di Aden, una delle rotte marittime più redditizie del mondo, fa acquisire rilevanza al Paese nel sistema economico globale.


La ricerca di petrolio e gas è cominciata intorno al 1948. Nei primi anni Cinquanta questi tentativi furono portati avanti da Agip e dalla Sinclair Oil Corporation, due multinazionali all'epoca con sede negli USA.


Più tardi, negli anni Ottanta, quando il Paese era in caduta libera a causa dei conflitti interni e del fallimento degli Stati Uniti nel fornire una vera assistenza finanziaria, molte multinazionali del petrolio vinsero concessioni per l’esplorazione. Queste società includevano Conoco-Phillips, Shell (Pectin), Amoco, Enit, Total, Exxon Mobil e Texaco.


Negli ultimi anni, la regione distaccata settentrionale di Puntland è stata trivellata dalla Africa Oil e Africa Energy che hanno base in Canada. L’interesse nella ricerca di petrolio e gas naturali non si limita alla Somalia. A largo di tutta la costa orientale africana dalla Somalia giù fino al Kenya, la Tanzania e il Mozambico sono state scoperte enormi risorse di petrolio e gas naturale. Di conseguenza gli Stati imperialisti, incoraggiati dalle multinazionali e dalle istituzioni finanziarie internazionali, sono smaniosi di reclamare le potenzialità di enormi profitti derivati dallo sfruttamento delle risorse energetiche.


Così la morsa finanziaria di Washington si stringe, strangolando il Paese con i debiti e gli interessi. Non dimentichiamo che la maggior parte dei paesi africani sono debitori del FMI (Fondo Monetario Internazionale) che li tratta come ostaggi imponendo loro politiche di deregolamentazione, privatizzazione e riduzione del welfare.


Più volte è stato dimostrato che il FMI barava sulle valutazioni dei suoi Paesi debitori (scandaloso fu il caso delle isole caraibiche), definendo le loro economie più deboli di quanto fossero in realtà. Questo ha come conseguenza diretta che tutti gli investitori stranieri ritirano immediatamente le loro azioni e il valore della moneta di quel Paese crolla drasticamente. L'inflazione aumenta e nel giro di pochi giorni milioni di persone si trovano a non poter più pagarsi nemmeno da mangiare. È la shockterapia economica di Friedman che abbiamo visto ripetersi decine, centinaia di volte e che ha un costo sociale enorme ma garantisce profitti spropositati a multinazionali e finanziatori esteri.

“Potete citarmi un solo caso in cui il FMI e il suo aiuto non abbiano prodotti effetti negativi? Ci è sembrato di capire che quello che il FMI cerca va ben al di là di un controllo sulla gestione: è un controllo politico.” (Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso - discorso all'ONU 1984)

La povertà, la sofferenza e il malcontento portano le persone a ribellarsi, a cedersi all'estremismo e alla violenza. E così si foraggiano i gruppi terroristici come Al-Shabaab, creando il pretesto politico per l’invio di forze militari statunitensi. Le forze armate USA, con la scusa di combattere il terrorismo che indirettamente loro stessi alimentano, possono poi controllare direttamente la gestione delle risorse indispensabili per le multinazionali americane del petrolio facendo leva sul caos e il disordine provocato dalla guerra. Se a questo aggiungiamo gli effetti devastanti della crisi climatica, come la siccità o l’invasione di locuste, il quadro è più che preoccupante. È sconvolgente. Intanto noi preferiamo perdere tempo a insultare una ragazza perché in ritorno dalla Somalia si è convertita. Facciamo finta di non sapere, preferiamo fermarci a ciò che non ci disturba troppo.


 
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