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  • Immagine del redattoreSebastiano Michelotti

George Floyd e Jacob Blake: il razzismo come conseguenza del capitalismo



È il macabro ossimoro della società di oggi. Un innocente, disarmato, nero, in fin di vita paralizzato da sette colpi di pistola alla schiena. Un pluriomicida bianco, suprematista, 17 anni, con un mitra in mano passa accanto alle pattuglie di polizia che caricano sui manifestanti come se nulla fosse.


Domenica 23 agosto, nel Wisconsin, una pattuglia viene chiamata sul posto per una lite familiare. I testimoni identificano un ragazzo di 29 anni, Jacob Blake, come «colui che cerca di sedare la lite». Dalle immagini si vede Jacob muoversi scortato dalla polizia, con una pistola puntata alla schiena. A un certo punto Blake, disarmato, prova ad entrare nella propria auto, ma un agente lo immobilizza da dietro, tenendolo per la maglietta. Nelle immagini si sentono almeno sette spari. Nell'auto si trovavano i suoi tre figli.



Ora Jacob si trova paralizzato dalla vita in giù, in ospedale, in bilico tra la vita e la morte. Lo hanno ammanettato al letto per giorni, come un criminale, finché dopo la denuncia del padre non sono caduti i capi d'accusa ed è stato "liberato". Ora sono in corso le indagini sull'accaduto, ma in qualsiasi caso gli agenti avrebbero potuto arrestarlo e bloccarlo con tutta tranquillità in qualsiasi momento, invece hanno deciso di sparargli alla schiena. Non un colpo, non due, ma sette. Questo non era necessario.


Le sere seguenti sono divampate le proteste dei Black Lives Matter nel Wisconsin. In una di queste, nella stessa città dell'accaduto, un ragazzino di 17 anni, Kyle Rittenhouse, uccide due manifestanti che hanno provato a disarmarlo. Il gruppo lo seguiva con l'intento di togliergli il fucile semi-automatico A-15, posseduto illegalmente, dalle mani. Tutto soddisfatto riprende a camminare in mezzo alla strada, dove intanto è arrivata la polizia, con l'arma in bella vista. Nessuno lo ferma. Passa accanto alle pattuglie, scambia due parole con gli agenti troppo impegnati a "contrastare i neri" e se ne va via. Verrà arrestato a casa sua un paio di giorni dopo, quando il video che lo incrimina diventerà virale.



Non amo fare il cronista, la cronaca fine a se stessa mi sembra vuota e inutile. Ma notizie del genere non avrebbero nemmeno bisogno di essere commentate. Non si può non notare la differenza di trattamento, la differenza di atteggiamento delle forze dell'ordine. E non si può non capire che è sintomo di un problema radicato alla base dell'intera struttura sociale.


Un problema che va ricercato nelle radici culturali, ma ancora di più in quelle di una politica economico-sociale che non ha mai lavorato per eliminare realmente tali differenze. Venerdì 28 agosto si è tenuta la convention repubblicana, tanta retorica ma nemmeno un cenno agli accaduti da parte del presidente Donald Trump. Nemmeno una parola per Jacob. Il presidente ha invece ribadito il suo tanto amato concetto di «Law and Order» in ottica di «porre velocemente fine al problema (delle rivolte, ndr)».


Un sistema, quello capitalistico-neoliberista, che gioverà sempre delle disuguaglianze dei più deboli, di coloro che partono da una situazione di discriminazione storica, è nella sua natura. Il principio su cui si fonda è che una sana concorrenza faccia emergere i migliori, ma ciò si basa sulla premessa implicita che tutti partano dallo stesso punto, con eguali opportunità.


La favoletta del capitalismo come catalizzatore del progresso sociale si sgretola se si porta alla luce la realtà dei fatti: i più forti faranno sempre di tutto per conservare il loro status (nonché il loro capitale) e per impedire che qualcuno, anche se più scaltro, intelligente, valido di loro possa spodestarli. A questo punto possiamo dire che come per i soldi anche lo status sociale è diventato oggetto da capitalizzare: l'importante è cercare di accaparrarsi, o per l'appunto capitalizzare, più vantaggi possibili per quella che si ritiene la propria classe. Se qualcuno si appropria di più "poteri sociali" (pensiamo all'enorme influenza che può avere su un'istituzione una sola persona al vertice di una gigantesca multinazionale in rapporto ad una persona comune) qualcuno deve per forza accontentarsi di "contare di meno", secondo come è concepito questo sistema. Così che il percorso per l'emancipazione di un gruppo sociale non solo diventi difficile e ostacolato, ma quasi impossibile.

E l'ingiustizia rimane.

Le proteste che si sono aizzate dalla morte di George Floyde ad oggi sono l'espressione di questa disuguaglianza e dell'impossibilità di colmarla. Non voglio giustificare l'uso della violenza, che reputo dannosa per l'attivismo stesso e per la causa che esso propone, come i grandi mentori del passato, da Gandhi a Martin Luther King, ci hanno insegnato. Ma posso dire di comprenderla a livello sociologico, come conseguenza inevitabile delle dinamiche sistemiche odierne.


Per usare le parole del reverendo Jesse Jackson: «Anche quando Martin Luther King era vivo ci sono state rivolte e saccheggi. E lui disse a un certo punto: la gente non capisce la non violenza. Perché? È semplice. Violence is the American way. La violenza è lo stile di vita degli Stati Uniti: dal genocidio dei nativi alla schiavitù degli afroamericani. La non violenza, che caratterizzava le nostre manifestazioni, è controcultura».


Perché le proteste dei Black Lives Matter sono diventate violente? Prova a dare una risposta la BBC, facendo un parallelo con ciò che successe in Inghilterra nel 2011, secondo il parere del professor Clifford Stott, esperto di comportamento della folla e di polizia dell'ordine pubblico alla Keele University. La riflessione comincia dall'osservazione che più la polizia cura i rapporti con la comunità locale (suo compito in quanto istituzione), più investe nel comunicare un senso di sicurezza che sia valido per tutti, più è probabile che la manifestazione sia pacifica. Le comunità nere oggi si sentono terrificate, impaurite dalle forze dell'ordine, non protette.

«Le rivolte sono un prodotto di interazioni - in gran parte a che fare con la natura del modo in cui la polizia tratta le folle», afferma il prof. Stott.

Per esempio, dice, in un grande gruppo di manifestanti, le tensioni potrebbero iniziare a salire con piccoli gruppi facinorosi che si scontrano con la polizia (come effettivamente succede nelle manifestazioni di Black Lives Matter, inizialmente pacifiche). Tuttavia «la polizia spesso reagisce nei confronti della folla trattandola come un unico insieme» e se le restanti persone percepiscono un uso ingiustificato della forza contro di loro si incrementa la mentalità "noi contro loro". Questo può far cambiare l'approccio di una folla alla violenza, ad esempio «potrebbero iniziare a considerare che la violenza sia legittima date le circostanze».


Ma la questione è ancora più complessa di così, e la Bbc fa ricorso alla psicologia morale per aiutare a comprenderla. Marloon Moojiman, assistente professore di comportamento organizzativo alla Rice University, ci dice che il senso di moralità è il fulcro di come una persona vede se stessa. Quindi quando giudichiamo qualcosa come «immorale», ad esempio l'uso eccessivo ed ingiustificato della violenza da parte delle forze dell'ordine in episodi come quello di George Floyd o Jacob Blake, si creano dei sentimenti forti, perché sentiamo che il nostro senso della moralità va difeso, a costo di scavalcare concetti quali il mantenimento della pace. Questo meccanismo è accentuato dalle "camere dell’eco" dei social network, nel momento in cui le persone vedono i propri amici e contatti condividere le proprie idee e posizioni, rafforzandole.


Infine un discorso a parte per i saccheggi. Il professor Scott ci mette in guardia, è sbagliato credere che si tratti di azioni caotiche e irrazionali: sono invece ben strutturate e hanno un preciso significato per chi vi prende parte. In una certa misura il saccheggio è un’espressione di potere: i cittadini afroamericani si sentono da sempre impotenti nei confronti della polizia, ma nel contesto di una rivolta sono i rivoltosi che diventano momentaneamente più potenti delle forze dell'ordine. Vari studi su precedenti sollevazioni rilevano come i posti saccheggiati appartengano spesso a grandi multinazionali e l'atto di derubarli sia correlato al senso di ineguaglianza del vivere in un'economia capitalista. Durante le recenti proteste ad Hong Kong, per esempio, ci sono stati danni a negozi - specie quelli collegati alla Cina - ma non saccheggi, perché le proteste sono state innescate da sviluppi politici e rabbia nei confronti della polizia, piuttosto che da discriminazione o ineguaglianza sociale.


 
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