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  • Immagine del redattoreSebastiano Michelotti

Caporalato agricolo: lo schiavismo che porta il cibo sulle nostre tavole

Aggiornamento: 21 lug 2020


Quando affettiamo un pomodoro comodamente acquistato al supermercato, sgambiamo gli asparagi o prepariamo l'insalata non prestiamo attenzione al percorso di produzione. Non ci verrebbe mai da pensare a quanta sofferenza possa nascondersi dietro un ortaggio o un frutto. A noi sembra tutto così semplice, così incantato: nel nostro immaginario è impressa la bellezza di un orto al tramonto, il sorriso del contadino e la purezza del suo prodotto come raffigurato nei cartelloni degli scaffali del centro commerciale. Purtroppo il comparto agroalimentare italiano si basa quasi interamente sulla manodopera a basso prezzo di braccianti, principalmente immigrati e molto spesso senza un regolare contratto di lavoro. Sulle loro spalle è caricato il peso di un sistema becero e corrotto che li costringe a condurre vite sotto la soglia della dignità umana per garantire l'arrivo del cibo sulle nostre tavole. Si tratta di una condizione che, di fatto, può essere vista come di segregazione, vero e proprio schiavismo.



Come vive un bracciante?


Non è facile immaginare come sia la vita di una di queste persone. Ogni ghetto nasconde situazioni diverse, una più disumana dell'altra. Ci sono famiglie costrette alla fame che vivono in baracche malmesse tra i campi, spesso non ci sono servizi igenici. I rifugi sono costruiti con lamiere arrugginite, amianto, sacchi di plastica e spazzatura. L'immondizia è sparsa un po' dappertutto. Per cucinare si usano fornelletti mezzi rotti o direttamente fuochi a cielo aperto. L'odore di plastica bruciata è nauseante e continuo.


Solo una settimana fa un uomo, uno dei duemila braccianti ospitati nell'insediamento di Borgo Mezzanone (Foggia), è rimasto ucciso da un incendio: è il quarto nell'ultimo anno e mezzo. Ma a nessuno interessa, perché queste persone non esistono, nè formalmente nè tanto meno umanamente parlando. I braccianti del borgo non sono appena arrivati: Alaj vive lì da 11 anni e sin da allora sta facendo richiesta per avere un regolare permesso di soggiorno così da poter cercare un lavoro in regola, poter versare i contributi e magari riuscire a pagare un affitto.



Senza i documenti tutto questo non è possibile, e quando gli viene detto della neo-sanatoria che il governo ha appena promosso (ma che non sta dando i risultati sperati) risponde che non è la prima volta che promettono documenti e di fatto la situazione non cambierà. Le regole le fanno i caporali, la legge per gli invisibili non conta nulla, sono costretti a lavorare in nero, senza contratto, senza tutele, senza sicurezze.


Alaj inizia a lavorare la mattina alle 6:00 e finisce 12 ore dopo, intorno alle 18:00, quando il caporale lo riporta a casa, per più di 300 giorni l'anno. Viene pagato 3 euro e 50 all'ora: «Nei campi non ci sono italiani, non lo vogliono più fare questo lavoro. E se noi non andiamo più a lavorare, voi non potete più mangiare», racconta ad un intervista delle iene.


Il nostro cibo passa dalle mani di braccianti come Alaj: «Se noi siamo puliti è meglio anche per voi. E se siamo puliti, anche voi mangiate cose pulite, se noi siamo sporchi anche voi mangiate cose sporche». Semplice no?


Di ghetti come questo ne è piena l'Italia, soprattutto nell'area pugliese. Spesso i padroni costringono i lavoratori ad alloggiare in case dismesse e diroccate nelle vicinanze del campo, pagando pure un affitto che vale gran parte del loro stipendio. Altrimenti? Altrimenti vengono cacciati. Lo mostrano ad esempio le immagini di questo servizio di "Gabbia-Open" su La7 dove l'inviato raggiunge un casolare abitato da 30 persone in 3 camere da letto, circondati da topi e spesso senza elettricità ed acqua corrente. Accanto alle camere c'è addirittura un porcile.



Altre volte i ghetti, suddivisi per nazionalità, sono gestiti dai caporali stessi che lucrano di continuo sulla condizione di miseria dei braccianti. Un lavoratore deve pagare il posto letto, quello che mangia, quello che beve o la doccia (se c'è). In sostanza gli spiccioli che guadagna nei campi li usa per vivere in miseria, e non ha altra scelta. A volte i padroni decidono di non pagare la giornata di lavoro e minacciano queste persone con una pistola. Questa si chiama schiavitù.




Chi è il caporale?

Il caporale è colui che è disposto a mettere da parte la dignità morale per sopravvivere nella giungla sociale sfruttando brutalmente altri esseri umani. Solitamente anch'esso è un immigrato e come tale è incastrato nella sua condizione di schiavitù nei confronti del padrone. In sostanza il caporale non è altro che il proprietario del mezzo di trasporto per collegare i lavoratori ai campi. Può sembrare una cosa da nulla, ma in un contesto di povertà come quello dei braccianti un veicolo è un lusso irraggiungibile e si crea quindi il problema di trovare un modo per raggiungere il posto di lavoro. Ecco che entra in gioco la figura del caporale.


Avere a disposizione un veicolo come un furgone, una camionetta o un mini-bus con cui trasportare illegalmente 20/25 persone costituisce un vero e proprio elemento di potere nei confronti di questi lavoratori. Il caporale sfrutta questo potere per introdursi come intermediario tra il bracciante e il padrone. Nessun lavoratore può scavalcare il caporale ed esso può così offrire i costi di manodopera più bassi possibili al padrone del campo da coltivare.



Il proprietario terriero italiano dovrà solamente rivolgersi al caporale comunicando il numero di persone necessarie ed esso avrà la facoltà di scegliere quali lavoratori prendere e quali lasciare a mani vuote. Non esistono certezze, nè diritti. Ogni giorno ti spacchi la schiena sperando di lavorare anche il giorno seguente, ma non puoi esserne sicuro. Un bracciante deve sperare anche di non infastidire in qualche modo il padrone o il caporale, riempendo male una cassetta o non raccogliendo abbastanza velocemente, altrimenti il giorno dopo potrebbe ritrovarsi senza nemmeno quelle poche monete che lo tengono in vita.


In alcuni posti il sistema può essere ancora più becero: i braccianti sono obbligati, alle 4 di mattina, a presentarsi sul luogo di ritrovo stabilito dal caporale, non sapendo però se passerà qualcuno a prenderli o meno. Ore di attesa nell'incertezza, nella paura di non lavorare e non poter comprare da mangiare per la propria famiglia. Lo mostrano le tristi immagini di questo servizio di "La Gabbia": «Sono 5 giorni che non c'è lavoro. Io aspetto qui dalle 4 tutti i giorni, ma non è sicuro che arrivi qualcuno.» racconta un bracciante intervistato sul posto.



I mezzi di trasporto forniti dai caporali sono quasi sempre fatiscenti, pericolanti e privi di regolare assicurazione o revisione. Vecchi furgoni svuotati e adattati per ammassare tra le 15 e le 25 persone, come quello che la notte del 6 agosto 2018 si schiantò in autostrada nella zona di Foggia. Persero la vita 12 braccianti. Il trasporto costa ad ogni singolo bracciante circa 5€ a giornata, circa come un paio d'ore del loro lavoro. Una tassa che entra direttamente nelle tasche dei caporali, sommandosi a quelle per il posto letto nel ghetto, per i viveri o per una doccia, dove ne esiste una.



Ma a decidere è la grande distribuzione con il sistema di aste a doppio ribasso

Se si vuole scoprire quale sia la vera causa che sta dietro ad una situazione tanto disumana si deve però oltrepassare la superficie e scavare con la logica e la curiosità. Risolvere il tutto attribuendo la colpa all'imprenditore italiano è alquanto riduttivo, e non fa onore alla gravità della situazione. Per quanto questo non giustifichi la mancanza di etica di alcuni concittadini, anch'essi nel loro piccolo sono vittime di una schiavitù, ben più articolata e ben più scaltra: quella del sistema economico.

Quando il mercato è monopolizzato da enormi complessi di distribuzione i piccoli imprenditori sono in bilico, il loro prodotto è facilmente deperibile e il rischio di andare in perdita è costantemente dietro l'angolo. Se produci devi vendere a tutti i costi. La grande distribuzione lo sa bene perché gestisce le vendite del mercato agricolo con una vile strategia chiamata asta a doppio ribasso. Suona strano, in quanto solitamente un'asta funziona a rialzo, mentre qui è l'inverso perché deve far abbassare i prezzi, non aumentare.

Queste aste vengono organizzate direttamente dalle catene di distribuzione una volta l'anno, quindi il volume di denaro che l'imprenditore partecipante si gioca è più che considerevole. Si parla di circa 12/13 milioni, addirittura fino a 30 milioni di euro, ovvero la gran parte delle entrate di una piccola-media impresa.

Chi vince vende tutto questo ammontare di prodotto ad una catena di supermercati, consegnando nell'arco dei successivi 12 mesi. Purtroppo però vincere una di queste aste equivale a svalutare il proprio prodotto sotto la soglia della decenza. Il meccanismo è un po' quello del gioco d'azzardo: la grande distribuzione invita gli imprenditori in questi "saloon" online dove viene organizzata l'asta. Viene chiesto di valutare ed esprimere un'offerta in relazione ad un determinato quantitativo di prodotto. L'offerta più bassa costituirà la base d'asta per il secondo giro di ribasso (asta dinamica), che la grande distribuzione fa partire una decina di giorni dopo.



I partecipanti hanno solo 2 minuti per rispondere ai continui ribassi con un ulteriore svalutazione del loro prodotto. Il ribasso minimo deve essere di 30.000€. Chi offre il prezzo più basso su quel quantitativo di prodotti si aggiudica l'asta. Alla fine di tutto questo processo i lotti di prodotti subiscono svalutazioni anche del 20-30%.

Il vero problema di queste aste private è che tali risultati si riflettono irrevocabilmente anche su chi non partecipa alle aste. Quando un lotto di pomodori per il valore di 7 milioni di euro viene venduto alla fine a 4 milioni il mercato prende in considerazione quel valore e lo applica in termini generali. Non c'è via di scampo. A giugno 2019 è stata approvata alla Camera una proposta di legge per bandire questa pratica, ma il tutto è rimasto bloccato in Senato, in attesa di non si sa cosa.

Ovviamente un imprenditore che si vede svalutare così tanto il prodotto è costretto a risparmiare sulla manodopera e sui costi di produzione, oltre che sulla qualità. Così alla fine della lunga catena di tagli, ribassi e speculazioni c'è il bracciante, l'invisibile, che si vede costretto a fare la fame. Non c'è nessuno a cui può scaricare parte di questo peso. Sotto di lui il nulla, sulla sua testa la gogna di un sistema avido e disumano, che mette ancora una volta il profitto prima della vita delle persone.


 
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