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  • Immagine del redattoreSebastiano Michelotti

La distruzione del passato è la perdita del nostro futuro

Aggiornamento: 14 mag 2020

Il passato è cultura. È cultura nella forma più profonda perché composto dalle espressioni della memoria dei popoli. Nel nostro passato risiede la nostra coscienza, la nostra consapevolezza dei diritti e dei doveri morali. Non vi è emancipazione sociale ed umana senza la conoscenza e la comprensione di ciò che siamo stati.


Non è un caso, a mio avviso, che oggi si viva una sorta di «presente permanente», citando uno dei più importanti storici viventi E. J. Hobsbawm, in cui vi è una mancanza quasi totale del passato storico. Tale fenomeno, inoltre, non è solo relativo alla maggior parte dei giovani, come sostiene invece Hobsbawm, ma peggio ancora è esteso a chi in parte la storia l'ha un po' vissuta e forse dimenticata, ovvero i cosiddetti adulti.


L'ignoranza del popolo nei confronti del passato è una condizione fondamentale per il mantenimento del potere. Un popolo ricco di cultura, di conoscenza e consapevolezza sarebbe un popolo impossibile da governare. Con "governare" non intendo "amministrare", bensì esercitare una forma, più o meno esplicita, di incontrollato potere con l'obbiettivo di massimizzarne il profitto.


Il capitalismo, nella sua forma più spietata, ha bisogno che i popoli non conoscano il loro passato e non imparino dai propri errori. Se così non fosse si potrebbe parlare di giustizia ed equità socio-economica senza ricondursi per forza al comunismo dittatoriale russo (o vedersi etichettati come tali), oppure si potrebbe insegnare la bellezza delle diversità dei popoli e i valori dell'inclusione sociale senza sentirsi dire "Prima gli Italiani".


Ogni forma di dittatura o monarchia della storia si è sempre fondata sulla violenza e sull'ignoranza delle masse. Ma non è forse il capitalismo, così come è stato pensato da Friedman e dalla Scuola di Chicago, una nuova, velata, forma di dittatura estrema che si regge sull'illusione di libertà? Il mercato, avendo pieni poteri di auto-regolazione, diventa quindi il nuovo dittatore.


Non è forse il capitalismo una nuova, velata, forma di dittatura?

Nei secoli passati la società non aveva certo a disposizione mezzi così avanzati per diffondere la conoscenza, soprattutto quella della storia. L'ignoranza si faceva forza delle circostanze per dilagare tra la gente comune e il dittatore, o il monarca, aveva vita facile: bastava saper tenere a bada qualche sporadico intellettuale acculturato e il gioco era fatto.


Ma oggi è ben'altra cosa: i canali potenziali di diffusione della cultura e del sapere si sono ampliati in modo esponenziale, potrebbe non esservi quasi più limite. Il "dittatore" - personalizzazione del capitalismo odierno - non può più pronunciarsi apertamente, è costretto a nascondersi e ad investire innumerevoli risorse nell'addomesticare la sete di conoscenza delle masse. E così dirama il suo dominio nelle scuole, nei programmi radio-televisivi, nella musica, nel teatro e in tutto ciò che è cultura; il mercato è ovunque ed influenza qualsiasi cosa.

Non basta più ormai non incentivare il diffondersi del sapere o semplicemente ostruirlo come nel medioevo, si deve far fare qualche passo indietro, si deve far dimenticare e reinsegnare a piacimento. Ecco cosa sta distruggendo il nostro passato.

In questa situazione gli storici non solo sono fondamentali, ma la loro attività deve andare oltre, come dice Hobsbawm, «l'essere dei semplici cronisti e compilatori di memorie». Devono farsi avanti e denunciare questo decadimento pilotato con lo stesso ardore con cui gli scienziati denunciano la crisi climatica. C'è bisogno di mobilitazione sociale che amplifichi la loro voce e che lotti per riprendersi la propria coscienza, la propria libertà intellettuale.


La conoscenza del passato è il progresso più importante a cui l'uomo possa ambire, e non vi sarà futuro se dimenticheremo ciò che siamo stati.

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